Lo sviluppo sostenibile: che cos’è?
di Giovanni Damiani, Direttore Tecnico dell’Arta
La questione della sostenibilità dello sviluppo economico e sociale è stata posta con forza all’attenzione delle istituzioni mondiali nel corso Conferenza mondiale su Ambiente e Sviluppo di Rio de Janeiro nel 1992. L’Unione Europea ha tradotto gli impegni assunti in quella sede con il quinto e sesto Piano d’azione; quest’ultimo, in particolare, denominato “Ambiente 2010, il nostro futuro, le nostre scelte”, costituisce il programma delle strategie di politica ambientale europea per i prossimi dieci anni.
Oggi il concetto di sostenibilità attraversa l’intera normativa e orienta i finanziamenti di progetti in campo ambientale.
Anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha abbracciato pienamente la filosofia dello sviluppo sostenibile, sancita in un apposito summit mondiale a Johannesburg, in Sud Africa. Nel Rapporto Brundtland (ONU, 1987) lo sviluppo sostenibile è “uno sviluppo che soddisfi i bisogni della popolazione presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
Oggi si parla – e molto – di “sviluppo sostenibile”. Questa locuzione, d’altronde, è fortemente evocativa dal punto di vista comunicativo. Perdurano però troppi equivoci sulla sua interpretazione, tanto che nonostante questo termine sia ormai iperinflazionato, il più delle volte appare applicato con decisione e determinazione solo a metà (solo per la parola sviluppo...) e rischia di passare per un ossimoro dal quale in molti si sono allontanati in cerca di definizioni più chiare quali “sostenibilità” o “futuro sostenibile”.
Analizzando con attenzione la letteratura esistente sono rinvenibili ben 153 definizioni diverse (fonte ISSI, Istituto Italiano per lo Sviluppo Sostenibile - Roma) di “sviluppo sostenibile”. Tralasciando gli esercizi letterari e le definizioni nate per convenienza politica, si possono stabilire tre criteri per la valutazione della sostenibilità, accettati perché caratterizzati da presupposti scientifici verificabili con idonee misure riproducibili.
I tre criteri sono stati dettati dall’economista Herman Daly nel 1991 e trovano larghissimo consenso teorico, anche se scarsissima applicazione pratica. Possiamo chiamarli, senza forzature, principi della sostenibilità:
- rigenerazione delle risorse;
- ricettività ambientale dei rifiuti;
- mantenere quanto più possibile costante lo stock di risorse non rinnovabili, sostituendo progressivamente le risorse non rinnovabili con quelle rinnovabili.
Analizziamo questi principi un po’ più nel dettaglio.
Il principio di rigenerazione delle risorse impone che il tasso di prelievo delle risorse rinnovabili sia pari o inferiore al tasso di rigenerazione. Non è quindi sostenibile un’economia che prelevi più risorse marine di quanto il mare riesca a rigenerarne, più legname di quanto un bosco possa riformarne: fare diversamente porterebbe all’esaurimento delle risorse naturali. Neppure è possibile prelevare il 100% delle capacità biogenetiche della natura per evitare la completa artificializzazione degli ecosistemi, che oltre a fornirci “utilità” svolgono funzioni aggiuntive nel mantenimento degli equilibri fondamentali garantiti dalla biodiversità, come la promozione della qualità dell’aria, delle acque, della fertilità dei suoli, l’assetto idrogeologico, eccetera.
Il principio di ricettività ambientale dei rifiuti postula che il tasso di immissione nell’ambiente dei rifiuti debba essere inferiore alla capacità di assimilazione degli stessi da parte dei sistemi naturali. Questo principio ha anche implicazioni qualitative: perché gli ecosistemi possano assimilare e metabolizzare i nostri rifiuti, infatti, occorre che questi ultimi siano della giusta qualità (biodegradabili e non tossici) e che non vengano superate le capacità di demolizione e ricircolo della materia. Ad esempio: l’inquinamento da sostanze organiche nell’acqua non è un problema drammatico se non consuma per intero ossigeno disciolto, così come pure i prodotti azotati e fosfatici non sono un problema se sono presenti nella fascia delle quantità “giuste” e se non scatenano processi di eutrofizzazione.
Il principio di sostituzione delle risorse esauribili con quelle rinnovabili prevede infine che il tasso di utilizzo delle risorse esauribili debba essere commisurato all’impiego di sostituti rinnovabili. L’applicazione di questo principio comporta, in definitiva, l’avviare un processo graduale di sostituzione di plastica, energia fossile, fibre sintetiche, ecc. con analoghi prodotti da fonti rinnovabili (legno, energie rinnovabili, lino, lana, cotone, seta, ...). Si avrebbe così una transizione graduale, controllata e non traumatica verso un’economia basata su fonti di energia e materiali rinnovabili. Per le risorse esauribili occorrerebbe, invece, avviare politiche di riciclo e di recupero di materia affinché la loro disponibilità resti il più possibile costante.
Per valutare la sostenibilità sono necessari due percorsi di metodo:
- il primo prevede che si tengano in considerazione gli aspetti economici, ecologici e sociali (l’ONU raccomanda anche quello culturale);
- il secondo raccomanda di fare sempre ricorso a misure adottando appositi indicatori e indici.
Attraverso queste due metodologie, con un’adeguata informazione al pubblico, la sostenibilità del nostro modo di vivere e di produrre può divenire effettiva, indicando percorsi chiari, compresi, partecipati, verificati e verificabili con periodiche opportune misurazioni.
Compito del SIRA (Sistema Informativo Regionale Ambientale), del SINAnet (Sistema Informativo Nazionale Ambientale) e della EEA (Agenzia Europea dell’Ambiente) è quello di fissare indicatori e di elaborare e diffondere i dati ambientali trasformati in informazioni per misurare se stiamo andando nella direzione giusta. Anche l’ONU e l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) da tempo hanno suggerito una “lista preliminare” di circa 200 indicatori di validità generale e adottato il modello concettuale D.P.S.I.R., sigla che sta per “Determinanti-Pressioni-Stato-Impatto-Risposta”.