I fitodepuratori
di Giovanni Damiani, Direttore Tecnico dell’Arta
E’ stata emanata dall’ISPRA la Guida tecnica per la progettazione e la gestione dei sistemi di fitodepurazione per il trattamento delle acque reflue urbane, pubblicato da ISPRA nella collana “Manuali e linee guida”, n. 81/2012. Un passo importantissimo che dovrebbe stimolare la realizzazione di questi impianti. Vediamo di che si tratta.
Gli impianti chiamati in Italia “fitodepuratori” sono noti nel resto del mondo come constructed wetland (= terreni costruiti, saturi di umidità).
La tecnologia è stata messa a punto per la prima volta negli anni ’70 del secolo scorso, è andata perfezionandosi nel decennio successivo (in USA, Svezia e Germania in particolare) e attualmente registra un’affermazione crescente nel mondo per i risultati straordinari che fornisce in un vasto campo di applicazione. Questi impianti depurativi sono adeguati a risolvere problemi di depurazione altrimenti non risolvibili e possono offrire un contributo determinante all’applicazione della Direttiva Quardo sulle Acque dell’Unione Europea, che pone limiti non raggiungibili con le fosse settiche o difficilmente conseguibili con piccoli impianti tradizionali.
Per la quantità di vantaggi che presentano, la normativa italiana (D.Lgs. 152/06, cosiddetto “testo unico ambientale”) incoraggia la costruzione di fitodepuratori: dopo aver disposto l’adozione di “tecnologie appropriate”, nell’Allegato 5 alla Parte Terza stabilisce criteri che fotografano perfettamente questo tipo di impianti:
“I trattamenti appropriati devono essere individuati con l’obiettivo di:
- rendere semplice la manutenzione e la gestione;
- essere in grado di sopportare adeguatamente forti variazioni orarie del carico idraulico e organico
- minimizzare i costi gestionali”
E più in là stabilisce che “Per tutti gli agglomerati con popolazione equivalente compresa tra 50 e 2000 a.e., si ritiene auspicabile il ricorso a tecnologie di depurazione naturale quali il lagunaggio o la fitodepurazione, o tecnologie come i filtri percolatori o impianti ad ossidazione totale.” ... “Peraltro tali trattamenti possono essere considerati adatti se opportunamente dimensionati, al fine del raggiungimento dei limiti della tabella 1, anche per tutti gli agglomerati in cui la popolazione equivalente fluttuante sia superiore al 30% della popolazione residente e laddove le caratteristiche territoriali e climatiche lo consentano.”
Ma perché la norma si sbilancia nel “raccomandare” così fortemente l’adozione di questi “sistemi naturali di depurazione”?
La risposta risiede, oltre che nelle caratteristiche di economicità, di rendimento e di inserimento nel paesaggio che queste tecniche “naturali” presentano, anche nel disastroso stato in cui versa l’Italia con i “tradizionali” impianti di depurazione biologici a fanghi attivi di piccole o piccolissime dimensioni, che sono molto costosi nella realizzazione e nella successiva conduzione. Questi depuratori elettromeccanici diventano tanto più gestibili e in grado di fornire buoni rendimenti depurativi quanto più sono grandi. Non dovrebbero quindi mai essere realizzati di piccole dimensioni perché diventano di difficile gestione tecnica e comportano oneri economici che non possono essere coperti neppure minimamente dalla tariffa posta a carico dell’esiguo numero di abitanti serviti.
Gli impianti a fanghi attivi richiedono infatti rilevanti e frequenti spese di manutenzione, consumano molta energia elettrica, devono essere seguiti assiduamente da personale esperto, costano per lo smaltimento dei fanghi che producono: fattori che, alla fine, divengono insostenibili per il comune che finisce per abbandonarli.
La fitodepurazione invece è particolarmente adatta proprio alla piccola dimensione, applicabile dalla singola abitazione, alle contrade o ad interi a paesi di qualche migliaio di abitanti. Oltre il 20% delle acque attualmente non depurate in Italia è proveniente dalle piccole e piccolissime comunità, cioè quegli agglomerati che si collocano sotto la soglia di 2.000 a.e., per i quali non è economicamente conveniente effettuare il collettamento dei reflui ed il loro recapito nei depuratori consortili. Se per queste comunità si effettuano valutazioni costi/benefici, si evidenzia spesso la difficile o assolutamente inopportuna realizzazione degli impianti tradizionali e che l’impiantistica della fitodepurazione delle acque è molto conveniente sia da un punto di vista economico che per il bassissimo impatto ambientale. Ciò vale, ovviamente, purché vi siano aree a disposizione a prezzi ragionevoli.
Esistono due tipologie fondamentali di fitodepuratori. Una prima tipologia è definibile come un sistema a letti filtranti in cui è insediata vegetazione palustre; la seconda è in pratica una zona umida a guisa di uno stagno o lago ad acque basse, entrambe specificamente costruite per il trattamento degli scarichi idrici o, in generale, per il miglioramento della qualità delle acque inquinate.
In Italia impianti di fitodepurazione realizzati nei primi anni ’90 si sono risolti in numerosi e clamorosi insuccessi iniziali e provocarono una diffusa diffidenza che ha rallentato la diffusione di questa tecnologia rispetto al resto d’Europa e agli USA. Le cause vanno ricercate nell’improvvisazione e nella superficialità di molti professionisti che, ingannati dall’apparente semplicità di questi impianti, si sono avventurati a realizzarne con scarsa competenza teorica specifica e per giunta a costi elevati. L’esperienza ha mostrato invece che, a dispetto di tanta apparente semplicità, la progettazione di un fitodepuratore è cosa piuttosto impegnativa e deve tenere in conto una serie numerosa di variabili quali: le proporzioni del dimensionamento (rapporto larghezza/lunghezza), la profondità del letto, il tempo di ritenzione, la permeabilità del medium, la velocità di scorrimento orizzontale del liquame, la pendenza, il carico idraulico, il battente idraulico, il tasso di evapo-traspirazione, la piovosità media del luogo, la scelta delle specie vegetali, i dispositivi di in-put e di out-put. Numerose sono le formule di calcolo semiempiriche messe a punto a riguardo. Tuttavia, se ben progettati e realizzati, i fitodepuratori hanno vantaggi straordinari e rappresentano una soluzione adeguata e sostenibile per una moltitudine vasta di applicazioni.
I fitodepuratori sono oramai largamente diffusi nella maggior parte dei Paesi europei, nell’America del Nord e in Australia e da tempo la loro applicazione trova spazio anche in ambiti diversi da quello dei reflui urbani: trattamento di reflui industriali, dei fanghi di risulta dai sistemi tecnologici di settori particolari come quello turistico (campeggi, hotel, agriturismi, ecc.) caratterizzati dalla presenza di forti variazioni della quantità e della qualità dell’acqua trattata giornalmente.
Gli ambiti di applicazione sono molto vasti: ad esempio, con i cosiddetti “prati erbosi filtranti”, che in pratica sono fitodepuratrori vegetati con erba e curati a prato, è possibile trattare acque di prima pioggia raccolta da piazzali, strade, autostrade, parcheggi, sedìmi aeroportuali, ecc.
Nella forma di lagunaggio la fitodepurazione avviene con acque esposte liberamente all’aria: consiste quindi in un bacino o canale, sempre col fondo rivestito di materiale impermeabilizzante per prevenire l’infiltrazione, su cui viene steso uno strato di terreno che supporta le radici della vegetazione immersa, galleggiante o emergente. In pratica si tratta di stagni alimentati dal liquame da trattare.
Negli Stati Uniti d’America, ove vi è abbondanza di grandi spazi liberi, sono state realizzate zone umide artificiali estesissime per la depurazione degli scarichi urbani di intere città di medie-piccole dimensioni, con risultati molto positivi sia nell’efficacia del trattamento che dal punto di vista della ricostruzione di zone umide spontaneamente ricolonizzate da specie faunistiche pregiate, soprattutto uccelli. In Europa i lagunaggi sono in uso soprattutto come trattamento terziario di “rifinitura” delle acque depurate da grandi impianti biologici a fanghi attivi, conseguendo abbattimento dei nutrienti azotati e fosfati ed abbattimento dei microbi patogeni senza il ricorso alla clorazione. Questi impianti, realizzati in genere con criteri ecologici ad imitazione di stagni naturali, servono anche a mimetizzare nel paesaggio, con la propria vegetazione arborea, le strutture tecnologiche degli impianti di trattamento.